Contro lo Stato-Nazione

di Jacques Wajnsztejn

articolo estratto da : Anarchismo #67 (p. 25-33)

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È difficile ignorare l’attuale ripresa delle affermazioni nazionali, comunitarie, identitarie. Difficile anche comprendere perché questa ripresa si produce nello stesso momento in cui la realtà sociale è sempre più internazionalizzata, in cui i nazionalismi politici sembrano retrocedere (Europa ‘92) davanti all’implacabile astrazione della pressione economica mondiale.

Nel momento stesso in cui il dominio mondiale del capitale si realizza palesemente, i problemi che il sistema capitalista pensa di avere sistemato (l’integrazione attraverso il lavoro, il consumo e la formazione dell’individuo democratico in luogo e al posto delle antiche classi all’Ovest), o accantonato (per esempio, il problema delle nazionalità uscite dal disordine delle due guerre mondiali, lasciato alle buone attenzioni dei Sovietici), gli ritornano con un effetto boomerang.

Di fronte a tutto ciò, non si tratta né di lamentarsi sottolineando i rischi dell’unità tedesca o del ritorno in forza delle idee di destra, né di fregarsi le mani sprofondando nelle certezze che ci procurerebbe il fatto di essere “avanti teoricamente” proclamando dappertutto: “Ve l’avevamo detto che l’URSS non era altro che un colosso dai piedi d’argilla, che la questione tedesca si sarebbe posta un’altra volta…”. Al contrario, mi sembra che sia necessario rimettere in discussione alcune delle nostre vecchie costruzioni teoriche ed in particolare l’articolazione Stato-Nazione che abbiamo a lungo abbandonata a favore della sola analisi della lotta contro lo Stato.

Stato e Nazione

Lo Stato è una mediazione che riproduce il rapporto sociale. Esso assicura l’unità individuo-società riel quadro d’una struttura specifica. È un tutto concretamente in azione, anche se può prendere aspetti sempre più astratti man mano che il suo controllo sulla società sposa le forme della tecnica moderna.

All’inverso, la nazione è una rappresentazione. Come tale, essa è stata assimilata, dalle diverse teorie rivoluzionarie, ad una ideologia, allo stesso titolo della religione. Non è quindi un caso che queste hanno subìto entrambe la stessa sorte: un “superamento” nel cielo delle idee teoriche. Il problema teorico posto dal concetto di nazione ha trovato la sua soluzione in un’astuzia terminologica: “lo Stato-Nazione” è il nuovo concetto che ha consentito il legame tra il denaro sociale e la rappresentazione astratta. Ciò si verifica nel quadro d’una visione umanistico-progressiva dello sviluppo dell’umanità, visione nello stesso tempo anti-imperialista, anticolonialista e anticomunitaria. Ma questo nuovo concetto doppio non sopprime il problema in quanto la realtà dello Stato-Nazione non è altro che un prodotto storico di una data epoca. In effetti, lo Stato è molto anteriore all’idea di nazione. Non è il prodotto del capitalismo dato che se ne ritrovano esempi nell’Antichità, principalmente sotto la sua forma dispotica. Al contrario, la nazione è il prodotto del capitalismo e della sua classe dominante, la borghesia, che è stata la prima a rivendicare la rappresentazione nazionale. All’epoca feudale, per gli antichi governi monarchici, non c’era l’idea di nazione. Poco importava su chi si regnasse, poco importava l’origine dei sudditi. L’essenziale era la potenza degli imperi. Nondimeno c’è un legame, in quanto senza una vera nazione, cioè senza una propria e forte identità collettiva, non ci può essere un vero e proprio Stato moderno, come lo dimostra in negativo l’esempio dei Paesi colonizzati.

Lo Stato-Nazione

Questa particolare articolazione tra Stato e nazione appare con chiarezza nel movimento del valore e nella venuta della borghesia alla ribalta politica: a una distruzione dell’antica comunità, che riposava sulla terra e sui legami di dipendenza personale, corrisponde, nel dominio dell’evoluzione delle idee, la teorizzazione di un nuovo legame sociale più adatto al livello di astrazione del nuovo rapporto che si è costituito. Sarà il contratto sociale a garantire una sorta di diritto fondante l’uguaglianza nella comunità nazionale. La nazione è quindi la rappresentazione della nuova comunità, cioè della società delle classi. Aldilà dei conflitti e dei compromessi fra le classi che si regolano a livello dello Stato, essa rappresenterebbe ciò che è comune. È la Rivoluzione francese del 1789 che ha meglio realizzato questo amalgama Stato-Nazione. Ma ciò non è accaduto senza conseguenze negative! È stato necessario che la rappresentazione borghese della nazione venisse fuori dal vecchio fondo precapitalista del clan e della comunità del suolo, dell’appartenenza del cuore. L’antica concezione della patria (Grecia, Roma) ha dato, nello stesso tempo, un sostrato concreto alla nazione (il compatriota è il vicino) e una mistica religiosa estranea alla fredda rappresentazione come si realizza nella nazione.

Questo patriottismo rivoluzionario permetterà di canalizzare la violenza latente dei sanculotti, di utilizzarla nella difesa della patria in pericolo. La stessa idea tornerà ad essere utile più tardi quando la guerra del 1914-18 permetterà l’integrazione della classe operaia francese alla comunità nazionale nella lotta contro la “barbarie tedesca”. Questa integrazione sociale diventerà politica con la partecipazione alla resistenza e alla politica d’unità nazionale del partito comunista dal 1944 al 1947.

Questo particolare concetto della nazione francese si spiega nello stesso tempo attraverso il suo carattere borghese e grazie al suo carattere rivoluzionario:

– Attraverso il suo carattere borghese che la rende più moderna della concezione tedesca di nazione alla quale spesso è stata comparata ed opposta. Nella concezione tedesca, che contiene ancora forti elementi pre-borghesi, la nazione non si distingue ancora bene dall’antica comunità, considerando sempre l’individuo come non esistente se non come parte della collettività, per cui la nazione è rappresentazione dell’individuo collettivo. Al contrario, in Francia, la nazione è l’associazione degli individui (cfr. Sieyès), cioè che l’individuo è distaccato dall’antica comunità, è “libero” e s’associa liberamente alla nuova comunità nazionale.

– Grazie al suo carattere rivoluzionario che le ha fatto avanzare, sotto diversi aspetti, idee che si situano di già molto aldilà della rivoluzione borghese, aldilà delle classi: “l’associazione libera degli individui”, la lotta per l’emancipazione delle razze, degli Ebrei, ecc. E per questo, come è accaduto con ogni altra grande rivoluzione, che essa ha ricevuto la partecipazione entusiasta dei rivoluzionari di tutti gli altri Paesi, come Anacharsis Cloots, il quale vedeva nella nazione francese la più ampia approssimazione empirica all’umanità che siamo in grado di percepire. In questa ottica, le nazioni non sono che frammenti d’umanità.

È questo modello rivoluzionario francese di nazione che Marx ha colto male a causa della situazione di esclusione in cui si trovava la classe operaia dell’epoca, esclusione che pareva rendere impossibile ogni nazionalismo di questa classe. L’internazionalismo proletario che ne derivava sembrava quindi cosa naturale. Per il resto, le posizioni di Marx sulla nazione erano puramente tattiche e subordinate agli interessi della classe (sostegno ai nordisti nella guerra di Secessione, sostegno a Bismarck nella prima guerra franco-tedesca per rafforzare la posizione del proletariato tedesco, ecc.).

Per Marx, quello che era rivoluzionario, non era lo scontro delle nazionalità, ma il movimento del valore stesso: l’universalismo del capitale doveva far scomparire le frontiere.

Dissociazione dell’unità Stato-nazione

Con l’allargamento e il dominio del rapporto sociale capitalista su tutta la società nel suo insieme nei paesi industriali, lo Stato moderno sembra lasciare il posto alla nazione… e alla borghesia, in quanto abbiamo visto che la nazione, contrariamente allo Stato e alla patria, è un concetto di questa classe. A partire dalla fine della Seconda Guerra mondiale, “le grandi potenze” (non si indicano più né come nazioni, né come Stati!) procedono a tagli politici: balcanizzazione dei Paesi dell’Este, taglio arbitrario delle indipendenze africane, fissazione dei “blocchi”. Il periodo dei “gloriosi Trenta” è anche quello che vede, a livello economico, svilupparsi le grandi imprese multinazionali. Il neocolonialismo si innesta quasi direttamente nel colonialismo. È questo doppio ordine mondiale che la crisi di riproduzione del rapporto sociale capitalista fa apparire oggi problematico. Quando c’è crisi delle mediazioni socializzanti (Stato, classi, lavoro) e delle rappresentazioni (valori legati al lavoro, comunismo, utopia) il problema delle appartenenze viene a galla attraverso il riferimento collettivo alle comunità d’origine e la richiesta di identità degli individui. Non bisogna comunque confondere identificazione e identità. L’identificazione è l’effettuazione reale o simbolica dell’appartenenza. L’identità e la richiesta di senso d’identità sono legate al sentimento della perdita delle antiche appartenenze e particolarmente dell’appartenenza di classe.

Ma, questo ritorno del sentimento comunitario, non si realizza oggi intorno all’idea di una comunità totale degli uomini, cioè di un “essere insieme” degli individui singoli. Si tratta sempre di una comunità ristretta: religiosa, etnica, nazionale o regionale. Si resta sempre nel mondo della particolarizzazione.

La nazione contro lo Stato, l’esempio della Francia

Sembra che il problema delle appartenenze non sia indipendente dall’antica situazione di classe degli individui. Così, per ciò che qualche volta viene chiamato “antiche classi medie” o, in modo ancora più tradizionale, “piccola borghesia”, lo Stato non è più la mediazione socializzante. Da fattore d’ordine, da garante della proprietà, diventa Stato burocratico, quello che strangola la piccola iniziativa privata. Il riferimento alla comunità nazionale interviene allora come fondamento della sopravvivenza. Ma, questa identità nazionale è più spirituale o culturale che nazionalista, contrariamente ad altre epoche (tra le due guerre, per esempio). Essa è quella cosa che produce il legame fra gli individui proletarizzati e la società e sono quelli peggio riprodotti dalla società che fanno maggiormente riferimento ad una comunità da cui immigrati, devianti, malati saranno esclusi. Che questa comunità sia mitica, non essendocene traccia in nessun posto, rosa com’è stata dall’economia, spazzata via dalla modernità tecnicista, non ha alcuna importanza perché il riferimento non funziona sulla base di una logica politica.

La crescita del fenomeno Le Pen traduce ciò via via sempre meglio. Agli inizi, non si trattava che di un movimento di estrema destra, ma poi gli argomenti politici tradizionali (la Francia colonizzata dalle potenze straniere), hanno perso la loro importanza a favore di argomenti morali (ruolo essenziale della famiglia, condanna del sesso, ecc.) o di argomenti razzisti (l’immigrazione, la minaccia degli Ebrei che occupano i mezzi d’informazione). Parallelamente e del tutto naturalmente si potrebbe dire, un partito che all’origine era indifferente e perfino ostile alla religione, va quasi a fondersi con l’ambiente integralista cattolico. Le Pen si lega a tutto ciò che tocca la “gente modesta” senza preoccuparsi troppo di un’immagine politica che può cambiare in qualsiasi momento facendo ricorso ai suoi talenti di tribuno. Si tratta di un partito populista in quanto s’indirizza direttamente al popolo e si presenta per altro come figlio del popolo.

Le “nuove classi medie”, come le chiamano comunemente i sociologi, cercano da parte loro una compensazione alla debolezza della loro identità di classe; debolezza che non proviene, come per le altre classi (antiche classi medie, classe operaia), dalla distruzione dell’antica identità causata dalle mutazioni del rapporto sociale, ma dal fatto che esse sono prodotte dal capitale stesso in maniera adeguata al suo sviluppo. Si tratta delle classi in un’epoca d’impossibilità delle classi.

Gli individui che ne fanno parte pensano di trovare questa compensazione in un aggancio diretto con lo Stato, ma si tratta di uno Stato che non è lo Stato di classe, che non è lo Stato della borghesia ma la mediazione che riproduce l’insieme del rapporto sociale. Se c’è un’identità, per loro si tratta dell’identità democratica, la quale rappresenta una sorta di forma modernizzata dell’universalismo: lo Stato non è più rapportato alla nazione, ma alla democrazia e ai diritti dell’uomo. Si è avuta una buona illustrazione di tutto ciò con le celebrazioni del bicentenario della Rivoluzione francese. Il diluvio commemorativo non si è fatto più attorno all’idea di nazione, di una nazione universalista, ma attorno all’idea di democrazia che segna nello stesso tempo l’unità e l’universalità capaci di permettere un blocco consensuale. Non è più la nazione che produce la legittimità dello Stato, ma semplicemente il fatto che esso sia democratico o no. Al limite, la nazione ormai non è altro che il luogo geografico in cui si produce il consenso e quindi può dissolversi nel Paese.

Da un lato, quindi, ravvicinamento nazionale, dall’altro lato, ravvicinamento allo Stato, ma c’è anche una terza via resa possibile dalla decomposizione della classe operaia, ed è quella di un doppio ravvicinamento, alla comunità nazionale e allo Stato. Questa realtà si traduce politicamente nell’ambiguità oscillante tra il voto al Partito comunista e quello dato ai fascisti. Degli operai, la cui condizione è resa via via sempre più precaria dalla ristrutturazione delle imprese, la cui utilità del lavoro è continuamente rimessa in causa, si indirizzano direttamente verso ciò che a loro sembra garantire nello stesso tempo là rappresentazione del capitale globale e la comunità nazionale, cioè lo Stato. É là l’ambiguità: c’è ancora la volontà di ritrovare l’antica armonia della comunità del lavoro nel quadro illusorio di uno Stato ideale rappresentante di tutta la comunità nazionale.

Il movimento di dissociazione dell’unità Stato-Nazione in Francia resta quindi molto contraddittorio, a causa della sua specificità e della sua forza originale, di cui abbiamo di già parlato. Se ne ha conferma con gli avvenimenti di questi ultimi anni relativi all’immigrazione, alla laicità, all’integrazione. È considerevole che la Francia era il solo Paese in cui il “problema” dell’immigrazione si ponesse in termini di integrazione! Questa integrazione si realizzava sia nel caso in cui veniva utilizzato il quadro ideologico e politico dell’unità Stato-Nazione (“la Francia, terra d’asilo”, “la Francia, Paese dei diritti dell’uomo”), sia nel caso in cui si teneva conto del livello economico d’impiego di una forza lavoro immigrata la cui integrazione attraverso il lavoro consentiva una separazione progressiva dalla comunità originaria. Ciò non vuol dire che non c’era razzismo all’epoca, ma era un razzismo del tipo paternalista, coloniale. Si prendeva in giro il vecchio arabo nel suo costume tradizionale, le mani e i piedi delle donne colorati alla henné, ecc. ma ciò faceva parte del paesaggio, del folclore. L’essenziale era altrove, nello sfruttamento della loro forza lavoro. Al limite, non erano considerati che come lavoratori.

L’afflusso massiccio di lavoratori immigrati negli anni ‘60, la politica di raggruppamento familiare, l’urbanizzazione che ha sviluppato i ghetti alla francese, tutto ciò aveva di già modificato il razzismo paternalista e prodotto le prime frizioni tra comunità operaia in disintegrazione e comunità immigrata in corso di modificazione nel quadro del ghetto. Ma, fin quando questo movimento corrispondeva ad una forma di gestione della divisione della forza lavoro, la contraddizione non era esplosiva e restava nei limiti del quadro definito dallo Stato-Nazione. Essa divenne esplosiva quando la forza lavoro non qualificata divenne inutile o almeno poco essenziale e si venne a trovare in una situazione di espulsione dal lavoro per i padri e di esclusione netta per i figli. L’individualizzazione attraverso e nella società del capitale (in quanto lavoratori, utenti, consumatori) è per altro rimessa in causa e cede i1 posto alla rivolta disperata, alla droga o alla sottomissione, ma anche in modo più profondo e insidioso alla riaffermazione della comunità sotto la sua forma religiosa (sviluppo dell’integralismo musulmano). Non c’è per altro incompatibilità tra queste due attitudini che possono costituire due momenti in seno al medesimo individuo. Questa affermazione comunicata si scontra nello stesso tempo con la comunità nazionale mitica (il razzismo paternalista che si era evoluto nella fase precedente in un razzismo “bianco” diventa adesso razzismo di rigetto e di odio) e con l’unità anch’essa mitica di uno Stato-Nazione fallimentare, uno Stato che non è stato neanche capace di imporre la laicità nel quadro del dibattito sulla scuola libera e che si è impelagato nella “questione del velo islamico”! È difficile volere imporre i propri valori (repubblicani, laici, ugualitari) in nome dell’integrazione quando ciò che li sottintende è proprio quello che produce l’esclusione.

Razzismo e comunità nazionale

Questo problema non è quasi mai abbordato dal punto di vista degli individui ma solo a livello dei principi. Ora, questi non tengono conto dell’ancoraggio sociale degli individui e del rapporto individuo-comunità. Non si può definire unicamente il razzismo in funzione di questi principi; così, se il razzista ha potuto a lungo essere definito come colui che poneva in primo piano le differenze per inserirle in una gerarchia di livelli di umanità (barbari, sotto-uomini, inferiori), ciò è più difficile oggi, perché il razzismo attuale, se sotto-linea sempre le differenze, è per farne l’apologia o almeno per riconoscere dietro queste differenze, i valori che contengono tutte le diverse parti di umanità. Ma, perché queste differenze possano continuare ad esprimere l’universalità dell’uomo attraverso le sue diversità, non bisogna che i valori corrispondenti siano mescolati, perché ciò produrrebbe una falsa universalizzazione che non sarebbe in effetti altro che una uniformizzazione nel quadro di una sottomissione ai valori della società americana.

Questo nuovo razzismo trae la sua specificità dal fatto che non è semplicemente rapportato all’immagine di un individuo superiore: l’uomo bianco o l’Ariano, ma che è rapportato alla comunità nazionale. Il razzista attuale è un individuo moderno che sacrifica alla modernità: è democratico. I costumi e i comportamenti delle diverse comunità hanno tutti un valore ma che deve esprimersi nel territorio in cui si sono sviluppati, dove conservano il loro significato: è questo che fa la ricchezza dell’umanità. Ed egli è anche consumatore: in quanto turista andrà in Tunisia o in Turchia e troverà in questi posti un certo spaesamento, un gustoso esotismo.

Il razzista moderno è quindi lontano dal presentarsi sotto la sola forma della bestialità del giovane skin o del bufalo ubriaco. E proprio questo che non capisce l’antirazzista, che è rimasto al livello dei principi e si ritrova di fronte qualcuno che ha anche lui la sua riserva di umanismo e che giura in nome di tutti gli dei di essere in buona fede. Non c’è in questo caso più un vero e proprio razzismo, ma una sorta di xenofobia più o meno radicale. Il nemico esteriore, accampato nel nostro Paese, è l’immigrato. Lo si è visto bene con le ultime prese di posizione di Le Pen riguardo il conflitto del Golfo. Grazie all’originalità della sua posizione in rapporto al consenso politico, ha potuto gridare alto e forte, insieme ad alcuni arabofobi del suo partito, che non era razzista ne soprattutto antiarabo, arrivando a disorientare una parte della sua clientela abituale e potenziale. Così ha cercato, laboriosamente, di spiegare perché è meglio sostenere lo sviluppo del nazionalismo arabo che essere l’ultimo bastione dell’Occidente contro l’integralismo musulmano e nello stesso tempo la sola possibilità per questi Paesi di assicurarsi uno sviluppo economico minimo, cosa che eviterà alla Francia e ai “Paesi del Nord” di restare sommersi dall’immigrazione dei “Paesi del Sud”. Si ritorna quindi al punto essenziale, l’immigrazione, e al pericolo che il nemico esterno si trasformi in nemico interno, che la sua esteriorità sparisca.

L’individuo razzista

Lontano dai grandi principi del razzismo e dell’antirazzismo, l’individuo razzista è quello che vive e percepisce la sua situazione giorno per giorno nella propria immediatezza. É quello che è mal riprodotto dalla società o quello che sta per essere separato da ciò che fino a quel momento percepiva come la sua comunità. All’inverso, la sua vittima è quello che sembra ancora possedere i propri valori, avere le proprie radici: un concreto che può essere “razzistato”. É anche un razzismo di prossimità che si esprime nei luoghi stessi della decomposizione sociale (periferie, margini dei ghetti, ecc.), irriflessivo, razzismo dell’insopportabilità, della rabbia. Non si organizza veramente e prende piuttosto la forma dell’aggressione, della “caccia”.

Quando questo razzismo dei fatti si produce in discorsi, è sempre per proporre il concreto contro l’astratto, sia per riferirvisi positivamente come nel caso dell’esaltazione del concreto nazionale che rappresenterebbe la nazione, dell’apologia del lavoro produttivo (che si oppone al “cosmopolitismo e ai soldi degli Ebrei”), sia per farne un criterio di rigetto in rapporto alla comunità organica quando il concreto dei riferimenti è fisiologico o biologico; indica allora delle differenze (di colore o di religione) che gli sembrano più importanti delle idee astratte dei diritti dell’uomo e di tutto quello che farebbe l’unità dell’umanità. Al contrario, l’antirazzista tradizionale (da non confondersi con l’individuo non razzista!) sosterrà l’astratto contro il concreto, quello che unisce contro quello che divide. Siccome il suo umanismo è progressista e civilizzatore, egli pensa affermare i suoi valori come universali. É per definizione euro-centrista. Il suo rifiuto della differenza concreta potrebbe anche condurlo a negare quest’ultima, come mostrano bene le ambiguità dei riferimenti ai meticci, che vengono considerati come l’abolizione fisica della differenza di colore. Su questa base, razzismo e antirazzismo restano sul medesimo terreno. Quanto all’antirazzista moderno, egli raggiunge ancora di più il modo di pensare del razzista in quanto, se fa riferimento ai diritti dell’uomo, lo fa in modo completamente meccanico, per capillarità consensuale. Sarebbe in difficoltà nel definire questi diritti in quanto tutte le culture si equivalgono e ogni differenza è ricchezza supplementare dell’uomo.

Antisemitismo e comunità nazionale

L’antisemitismo ha rivestito diverse forme storiche. La prima, quella dell’antiebraismo cristiano è quasi del tutto scomparsa oggi salvo nei circoli ristretti dell’integralismo cattolico. Gli è succeduto storicamente, nel XIX secolo, un antisemitismo nazionale teorizzato da Drumont e Maurras, e la cui espressione culminante fu l’affare Dreyfus. L’Ebreo è sempre denunciato come il Male ma, cosa nuova, è anche fermento di corruzione e di disgregazione del corpo sociale della nazione. Questo antisemitismo nazionale è anche un antisemitismo sociale nella misura in cui è espressione di classi in decomposizione o in mutazione, nel periodo dello sconvolgimento del modo di produzione capitalista: seconda rivoluzione industriale, esodo rurale, taylorismo, fordismo. É soprattutto espressione del contadino sradicato, del commerciante e del redditiere rovinati dalla guerra o dall’inflazione, degli operai in situazione sottoproletaria. Questa forma d’antisemitismo è dominante in Europa alla fine del XIX secolo fino agli anni ‘20. L’Ebreo è nello stesso tempo il denaro, il cosmopolitismo, lo straniero. È su di lui che si cristallizzano le reazioni populiste contrarie al capitale e gli odii della destra nazionale.

Ma, a poco a poco, le basi sociali e nazionali dell’antisemitismo perdono la loro forza. Le funzioni economiche specifiche degli Ebrei declinano. Via via, gli Ebrei francesi raggiungono le professioni liberali o intellettuali. Una numerosa immigrazione proveniente dalla Polonia s’installa bene o male in basso alla scala sociale. L’unità della comunità è rotta tra Ebrei nazionali ricchi o agiati che sono individualizzati ed assimilati e Ebrei immigrati più poveri il cui statuto è spesso quello di apolidi. Lo stesso fenomeno si produce in Germania dove esiste una “classe intellettuale” e una cultura tedesco-ebraica. Ne deriva una diluizione dell’immagine dell’Ebreo. È la specificità dell’antisemitismo nazista, il quale ha collegato alle basi sociali e nazionali in corso di smembramento dell’antisemitismo, un antisemitismo biologico capace di rendere di nuovo chiara l’immagine dell’Ebreo. La forza della comunità ebraica aveva fatto dimenticare che l’Ebreo è quello che si infiltra (da cui la frequente assimilazione nella destra tra Ebrei e massoni). Bisogna quindi svelarlo e indicarlo. La teoria delle razze apporta delle giustificazioni… e delle “soluzioni” all’antisemitismo.

In effetto, quello che distingue l’antisemitismo dalle altre forme di razzismo, è l’oggetto del razzismo: l’Ebreo non è mai stato veramente “inferiore” contrariamente al colonizzato. Egli ha suoi valori, una sua cultura e non gli si nega il diritto a mescolarsi agli altri, almeno in quanto individuo. L’Ebreo ricco e distinto, come l’intellettuale brillante, vengono invitati nei saloni della buona borghesia. Con il nazionalsocialismo, l’Ebreo “inutile” e “nocivo” viene abbassato in nome della purezza della razza, abbassato al rango di Untermensch (sotto-uomo). L’antisemitismo biologico potrà così giustificare e decolpevolizzare l’antisemitismo sociale latente che traspare sempre dai rapporti mercantili. Una volta ammesso ciò, tutti i travalicamenti sono consentiti, sia quelli degli antisemiti che possono infine esercitare impunemente la loro vigliaccheria (gli Ebrei sono dei sotto-uomini) che quelli di uno Stato che si presenterà come il braccio armato della purificazione ariana e nazionale.

Dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, l’antisemitismo è indietreggiato o almeno è scomparso dalle prime file della scena, salvo nei paesi europei del blocco sovietico. Ciò non è dovuto unicamente al sentimento di colpevolezza che ha seguito dappertutto la deportazione e lo stermino degli Ebrei, ma al fatto che questi non occupano più una posizione particolare nella società. Le basi dell’antisemitismo sociale sono scomparse: il sistema capitalista, che adesso sta per fare a meno anche dei borghesi, ha ancora meno bisogno di un intermediario, di un agente di trasmissione del valore. Il denaro circola liberamente, astrattamente e in modo anonimo. L’Ebreo non può più essere una rappresentazione della coscienza popolare (le “duecento famiglie”, non di più); le basi dell’antisemitismo nazionale anche: l’Ebreo non è più l’immagine di una comunità nel senso forte, comunità che, bisogna ricordarlo, non era rappresentata da uno Stato-Nazione prima della creazione dello Stato d’Israele. Anche questo non esiste più: il movimento sionista è diventato un movimento nazionalista e la nascita prima, e le difficoltà di sopravvivenza poi, dello Stato israeliano hanno provocato un’identificazione degli Ebrei con il “loro Stato”, ivi compresa la diaspora in cui l’identificazione si fa ancora più contraddittoria.

Tutto ciò non vuol dire che non vi sia più la base per un antisemitismo ma che il suo sviluppo procede differentemente a partire dalle situazioni che sono cambiate. Le forme attuali della sua riattivazione sono soprattutto politiche, anche se dietro si ritrovano altre determinazioni. Una di queste proviene dalla situazione internazionale e dalla posizione dello Stato d’Israele nei conflitti del Medio Oriente, del suo ruolo nel problema palestinese. L’antisionismo che ne deriva, in Francia e in Germania, per esempio, è più legato ad un odio per lo Stato d’Israele, parallelo all’odio per gli USA, che ad un antisemitismo vero e proprio. Per altro, non tocca che una piccola parte della popolazione, perché come globalmente le popolazioni dei Paesi industriali sono pro-israeliane, arabofobe e antislamiche. Unaltra forma politica di riattivazione dellantisemitismo si. esprime nelle analisi che sottolineano che, se gli Ebrei hanno perduto la loro potenza economica all’epoca del grande capitale e delle multinazionali, non hanno perduto la loro potenza che si colloca adesso nel cuore del nuovo potere delle società moderne, cioè nei grandi mezzi d’informazione. Da qui gli attacchi costanti del Fronte nazionale contro la stampa e gli intellettuali antifrancesi. L’assimilazione denaro-Ebreo, cede allora il posto all’assimilazione intellettuale-Ebreo. Ma questo antisemitismo funziona male. L’immagine del complotto e della società segreta deve essere fortemente reattiva, perché la clientela potenziale del discorso antisemita, cioè gli individui mal riprodotti dalla loro classe in crisi e dallo Stato del capitale moderno, non vede nella comunità ebraica, che ha perso in gran parte i suoi caratteri, il principale ostacolo alla riforma della propria comunità.

Per tutte queste ragioni, l’antisemitismo è ormai un elemento secondario dell’ipnotismo nazionalista. Più grave, invece, la messa in atto sistematica dell’antisemitismo operata da tutti gli “antirazzisti” politici di ogni fede che cercano così di camuffare, attraverso l’orrore che rappresenta l’antisemitismo, il consenso sull’immigrazione.

Contro lo Stato e la nazione

La relativa debolezza dello Stato fa dubitare della sua capacità di riprodurre l’insieme del rapporto sociale. Senza rendersi conto che esso nega con ciò la propria utilità, annuncia bruscamente che ben presto non potrà più pagare le pensioni, più curare i malati, più assicurare la “sicurezza dei beni e delle persone”, ma che aspettando tutto ciò bisogna continuare a credere in lui. Suona allora la campana di tutto quello che può servire a giustificarlo, e in un grande si lancio, proclama la convergenza dell’economia e del sentimento nazionale. Per accettare il rigore economico abbisogna il fervore nazionale. È il fallimento dell’economia nazionale che è sempre rimesso sul tappeto. Se si deve sacrificare un’impresa o un settore d’attività, è sempre per salvare l’insieme, e tanto peggio se ci si accorge che al momento l’insieme è vuoto.

Solo l’attuale debolezza delle alternative allo Stato e alla nazione produce e spiega ancora questa agglomerazione di opinioni e di comportamenti, più passivi che attivi, che forma questo consenso con cui ci si abbevera.

 

Jacques Wajnsztejn